La vitamina D, un ormone che il corpo umano sintetizza quotidianamente attraverso la pelle grazie all'esposizione solare, è insieme al calcio e alle proteine uno dei tre fattori che aiutano a preservare la massa ossea. Nello specifico consente di ottimizzare la disponibilità di calcio nonché la stimolazione diretta del tessuto muscolare indispensabile per prevenire il rischio di cadute e fratture, un’eventualità sempre più concreta con l’avanzare dell’età.

Nuovi orizzonti della ricerca

Diversi studi epidemiologici hanno mostrato che l’assunzione di questa vitamina attraverso dieta e integratori è inferiore alle 200 UI al giorno nella maggioranza della popolazione, con un conseguente deficit prevalente di questa sostanza. «Generalmente per garantirsi la quantità giusta di vitamina D basterebbe esporre al sole testa, braccia e gambe tre volte la settimana, ma il 70% della popolazione italiana ne è carente – precisa Maria Luisa Brandi, ordinario di Endocrinologia e malattie del metabolismo presso l’Università degli studi di Firenze.– Nel caso degli over 65, ad esempio, la cui cute è meno ‘recettiva’ rispetto a quella di un giovane e non si riesce quindi ad assumerne la quantità necessaria attraverso le vie naturali, mettendo dunque a rischio la salute delle ossa, si può suggerire la supplementazione di vitamina D».
Questa vitamina, tuttavia, potrebbe avere un ruolo anche in patologie di altro tipo. Quest’ipotesi, sostenuta da una serie di lavori scientifici che mostrano un’associazione tra carenza di vitamina D e patologie croniche extrascheletriche, merita di essere approfondita con trial clinici su larga scala, sia su pazienti con ipovitaminosi D sia su soggetti che presentano un adeguato stato vitaminico, come è emerso al World Congress on Osteoporosis, Osteoarthritis and Musculoskeletal Diseases (Wco-Iof-Esceo) tenutosi a Firenze lo scorso marzo.
Negli ultimi anni, la scoperta che molti tessuti e cellule del sistema immunitario presentano il recettore per la vitamina D (VDR) ha aperto dunque nuovi orizzonti sulle molteplici funzioni di questo ormone e l’analisi della letteratura scientifica sembra confermare che un adeguato stato vitaminico D non è importante solo per prevenire fratture e patologie ossee, ma potrebbe influenzare positivamente anche l’incidenza di malattie cardiovascolari e autoimmuni, diabete nonché di alcune neoplasie.

Vitamina D e malattie cardiovascolari

Uno dei campi maggiormente indagati è stato quello cardiovascolare, a partire da studi epidemiologici che hanno evidenziato un’associazione tra una carenza di questa vitamina e l’aumentato rischio di problemi cardiovascolari, inclusa l'ipertensione.
Ad esempio le osservazioni che la pressione arteriosa, sia sistolica sia diastolica, aumenti con la distanza dall'equatore e che alcuni eventi nonché il numero di ricoveri ospedalieri siano più numerosi in alcune stagioni, suggeriscono che la vitamina D potrebbe avere un ruolo nel modulare la salute e la mortalità cardiovascolari. Un’indagine, condotta in ospedali francesi, ha correlato in particolare l’occorrenza di eventi cardiovascolari importanti alla stagionalità, e dunque al sole, affermando con ciò l’associazione vitamina D e salute cardiovascolare.
Già qualche anno fa, l’Health Professional Follow-Up Study aveva verificato i livelli ematici di vitamina D in circa 50.000 uomini sani e, seguendoli per 10 anni, osservava una probabilità doppia di andare incontro a un attacco cardiaco negli individui che presentavano una carenza di suddetta vitamina.
Altri lavori scientifici hanno indicato che bassi livelli di questa vitamina sono associati a un rischio aumentato di insufficienza cardiaca, morte cardiaca improvvisa, ictus, malattia cardiovascolare e morte cardiovascolare; studi osservazionali hanno dimostrato che bassi livelli di 25 idrossivitamina D sono associati con un profilo di rischio cardiovascolare avverso e a un aumento significativo del rischio di eventi cardiovascolari.
Sulla base di queste evidenze meccanicistiche sono stati avviati anche dei trial clinici che hanno valutato la supplementazione dell’ormone in individui a rischio di malattie cardiovascolari. Non solo ampi studi di coorte, come quello di Bischopp-Ferrari del 2010, ma anche trial clinici, sebbene con una modesta numerosità campionaria, hanno mostrato, ad esempio, che la supplementazione per 8 settimane di vitamina D (800 UI) ha ridotto sia la pressione diastolica sia quella sistolica.
Dell’effetto dell’integrazione di vitamina D sui valori pressori si sono occupate anche diverse metanalisi. Una delle più recenti, condotta nel 2015 da Beveridge e colleghi e pubblicata su Jama Internal Medicine, ha riguardato 46 trial randomizzati e controllati-RCT (per un totale di 4.541 pazienti) e ha rilevato una riduzione significativa della mortalità, includendo tutti i trial clinici sulla supplementazione con questa vitamina.
Nuove ricerche sono ancora in corso, in particolare studi clinici volti a determinare se e in quale misura la supplementazione di vitamina D abbia un effetto sugli outcome cardiovascolari: lo studio statunitense Vital, ad esempio, di cui si attendono i risultati entro quest’anno, sta valutando, in 20.000 soggetti di età superiore a 50 anni, l’effetto di 2000 UI di vitamina D3 sia sulle patologie cardiovascolari sia in ambito oncologico.
Un ampio studio (DO-HEALTH) testerà la supplementazione di 2000 UI di vitamina D con il placebo per 3 anni su oltre 2.000 senior (+70 anni) su pressione arteriosa e tasso di infezione come primo endpoint e insulino-resistenza come secondo.
Oltre a RCT sui outcome clinici complessi, sono in corso anche progetti più ampi, come il progetto quadriennale dell'Unione europea Odin, mirato alla definizione di strategie alimentari per migliorare lo stato di vitamina D nella popolazione generale.
Dai risultati di queste ricerche dovrebbero scaturire le strategie più adeguate per la gestione della carenza di vitamina D a livello clinico e della popolazione generale.
Per completare il quadro, occorre citare, infine, un recentissimo studio randomizzato e controllato pubblicato da Scragg e colleghi sulla rivista Jama, secondo cui alte dosi di vitamina D non risultano efficaci nella prevenzione della malattia cardiovascolare nel campione preso in esame.

Le potenzialità della vitamina D in oncologia

«Dall'analisi della letteratura scientifica sono emersi dati interessanti sul ruolo della carenza di vitamina D anche nello sviluppo e nella prognosi di alcune neoplasie – spiega Francesco Bertoldo, responsabile della Struttura funzionale malattie del metabolismo scheletrico e minerale dell’Università degli studi di Verona. – Alcuni studi dimostrano che la vitamina D svolge un ruolo importante nella regolazione della crescita delle cellule tumorali e nel modulare il controllo del sistema immunitario sul cancro. Inoltre i dati epidemiologici hanno dimostrato un aumento della prevalenza di diversi tipi di cancro – in particolare mammella, prostata e colon – nelle aree settentrionali dell’emisfero». Questi dati – continua Bertoldo – suggeriscono dunque «un legame tra la quantità di esposizione ai raggi UV e, di conseguenza, la sintesi attraverso l’epidermide della vitamina D. Infine, è emerso che tra i pazienti oncologici vi è un’elevata prevalenza di bassi livelli di vitamina D».
Le evidenze che correlano un’elevata prevalenza di carenza di vitamina D nei pazienti affetti da cancro meritano pertanto di essere approfondite con studi su larga scala, da condurre idealmente tra individui a rischio di ipovitaminosi D. Anche in questo caso i risultati degli studi ancora in corso potranno chiarire le questioni aperte, incluse le concentrazioni plasmatiche ottimali utili per ottenere un effetto sia nella prevenzione sia nel trattamento di alcune neoplasie.