Cosa si può e cosa non si deve dire sugli integratori alimentari

Al momento non esiste una normativa unica e specifica per la comunicazione commerciale degli integratori alimentari, ma è necessario riferirsi a diverse disposizioni, sia comunitarie sia locali. Orientarsi non è sempre semplice e soprattutto il rischio di errore non così improbabile.

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Per fare una sintesi delle regole e quindi definire cosa si può e cosa non si può comunicare a proposito di integratori alimentari, senza la pretesa di sviscerare completamente l’argomento, ma riflettere sui punti più importanti, proviamo ad analizzare 3 casi, che hanno portato a provvedimenti giudiziari, con ammenda o addirittura l’arresto dei titolari dei prodotti.

Normativa in materia di comunicazione commerciale degli integratori alimentari
Al momento non esiste una normativa unica e specifica per la comunicazione commerciale degli integratori alimentari, ma è necessario riferirsi a diverse disposizioni, sia comunitarie sia locali. Orientarsi non è sempre semplice e soprattutto il rischio di errore non così improbabile.

Il primo caso riguarda il titolare di un integratore HDL condannato dalla Corte di Cassazione (Corte di Cassazione Penale sez III, sent. 2949, 15 marzo 1999) alla pena dell’arresto e dell’ammenda per aver comunicato per questo prodotto proprietà curative o comunque in grado di correggere funzioni organiche, in particolare ridurre o correggere la colesterolemia. Inoltre sull’etichetta dell’integratore era raffigurato un “cuore rotto” con a fianco indicata l’incidenza di infarto in Italia.
Il secondo caso riguarda una pronuncia dell’autodisciplina pubblicitaria (pronuncia n. 15 del 12/5/2015) a proposito di un integratore a base di riso rosso fermentato descritto come avente “una funzione del tutto simile alle statine di sintesi”.
Il terzo caso riguarda un integratore a base di flavonoidi per il quale il produttore ha vantato proprietà simili a quelle medicinali di “favorire la totale e veloce risoluzione dei sintomi associati a insufficienza venosa e sindrome emorroidea” (Provvedimento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato n. 25298 del 28/1/2015) su un opuscolo lasciato ai medici e un sito web accessibile anche dal pubblico.

Definizione di integratore alimentare

Per comprendere cosa c’è di sbagliato nella comunicazione di questi 3 prodotti, è innanzitutto necessario ricordare che, secondo il D. Lgs 169/2004 (art.2)  per integratore alimentare si intende “un prodotto alimentare (solo uso orale) destinato a integrare la comune dieta e che costituisce una fonte concentrata di sostanze nutritive, quali le vitamine e i minerali, o di altre sostanze aventi un effetto nutritivo o fisiologico, in particolare non in via esclusiva amminoacidi, acidi grassi essenziali, fibre ed estratti di origine vegetale, sia monocomposti che pluricomposti, in forme predosate”. L’art. 6 dello stesso D. Lgs specifica inoltre che l’integratore alimentare, nell’etichetta e in tutte le forme di pubblicità (comprese brochure, opuscoli, web, tv, radio…), non può dichiarare di curare né può vantare il trattamento di patologie; queste proprietà, invece, sono riconosciute essere proprie di un medicinale o di un dispositivo medico.

Integratore, farmaco o dispositivo medico?

Ma cosa distingue un integratore da un medicinale? Non è una questione di principio attivo. La vitamina C, per fare un esempio, è presente sul mercato in tutte le forme commerciali: è un cosmetico quando si propone nei prodotti a uso topico per contrastare le rughe (proprietà antiossidanti); è un alimento quando è presente ad esempio in una caramella (< 60 mg), è un integratore se, a un dosaggio orale compreso tra 60 e 1000 mg, viene usata per bilanciare un diminuito introito di questa vitamina, ed è un medicinale quando (500-1000 mg) viene proposta per prevenire lo scorbuto.

Non è la forma farmaceutica, né il dosaggio o la composizione del principio attivo che stabiliscono se un prodotto è un integratore o un farmaco, ma la sua finalità d’uso e da questo dipende la tipologia e l’ampiezza del mercato e anche i claim che si possono vantare.

A stabilire la finalità d’uso è il responsabile dell’immissione del prodotto sul mercato, e quindi il titolare dell’AIC nel caso di un medicinale o chi appone il proprio nome nel caso di un integratore alimentare. Non è invece compito della pubblica amministrazione stabilire la finalità d’uso, ma piuttosto assicurarsi della sua sicurezza ed efficacia, a tutela del consumatore.

Integratore non è farmaco

Nel caso dell’integratore a base di flavonoidi l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) è intervenuta perché all’integratore veniva attribuito un effetto curativo tipico di un medicinale, ovvero favorire la totale e veloce risoluzione dei sintomi associati a insufficienza venosa e sindrome emorroidea, mentre le linee guida del Ministero riconoscono all’integratore una generica azione sulla funzionalità del microcircolo. Allo stesso modo, nel caso dell’integratore a base di riso rosso, la capacità del principio attivo monocolina di ridurre il colesterolo è stata paragonata a quella delle statine. «Il problema assume una rilevanza penale perché è come mettere in commercio un farmaco non registrato», spiega Paola Minghetti, ricordando che per l’immissione sul mercato di un integratore può bastare una notifica dell’etichetta al Ministero (D. Lgs 111/92).

Nel caso dell’integratore HDL il problema non era costituito dal claim vantato in etichetta nella riduzione della colesterolemia, ma la raffigurazione del cuore rotto con il dato di incidenza di infarto in Italia. Come specifica il Regolamento 1924/2006, infatti, a un integratore si può riconoscere la capacità di ridurre un fattore di rischio di malattia (claim salutistico), come può essere appunto il colesterolo, purché i dati scientifici lo dimostrino. Secondo il Magistrato la raffigurazione del cuore rotto portava in qualche modo il consumatore a pensare che l’assunzione dell’integratore potesse ridurre il rischio di infarto, pur non scrivendo questo claim in modo esplicito. «Anche in questo caso è come avere a che fare con un medicinale non registrato. La peculiarità, in questa situazione, è il fatto che il claim non è una dicitura scritta, ma un disegno, a ricordarci che, come stabilisce il D. Lgs 145/2007 qualunque forma di comunicazione non deve essere ingannevole per il consumatore, che deve essere tutelato – precisa Paola Minghetti –. In caso di dubbio, quando un prodotto, considerate l’insieme delle sue caratteristiche, può rientrare contemporaneamente nella definizione di medicinale e in quella di un altro prodotto, come un integratore alimentare, disciplinato da un’altra normativa comunitaria, si applicano le disposizioni dei medicinali (art 2 D. Lgs 219/2006) per garantire il livello massimo di tutela del consumatore: il paziente è infatti considerato un soggetto più debole e fragile di un soggetto sano».

Comunicazione, attenzione a tutti i canali e le forme

Il caso dell’integratore a base di flavonoidi risulta interessante anche perché ha portato l’Autorità garante della concorrenza e del mercato a emanare un provvedimento (n. 25298) che riflette sui criteri di legittimità della comunicazione rivolta al medico, in particolare alla promozione e presentazione di un integratore alimentare anche attraverso la diffusione di un opuscolo informativo rivolto ai medici e al personale sanitario.

«Nel caso in cui la comunicazione abbia come obiettivo primario e diretto la promozione del prodotto all’esterno della società e presso i professionisti del settore medico, – si legge nel provvedimento –, la comunicazione è qualificabile come una forma di pubblicità assoggettabile alle regole del caso (D. Lg 145/2007 che protegge i professionisti dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali) e non può essere considerata uno strumento di divulgazione senza alcun fine promozionale, fornito ai propri informatori scientifici per renderli edotti delle caratteristiche dell’integratore». Quindi, la comunicazione «deve essere considerata di tipo commerciale esattamente come quella rivolta direttamente al consumatore finale», precisa Paola Minghetti.

Come ben spiegato nel Provvedimento dell’Agcm rientrano in questa definizione tutti gli elementi della comunicazione, sia grafici che testuali, come la presentazione dell’opuscolo in termini di clinical review, il riferimento ad evidenze scientifiche, il format di pubblicazione, l’utilizzo di termini enfatici comunemente utilizzati nella promozione. «Ricordiamo che comunicazione è da intendersi in tutte le sue forme, comprese quelle digitali», conclude Paola Minghetti.